“Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente (abuso dei mezzi di correzione e disciplina), maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni”.
La norma tutela il legame giuridico intercorrente fra persone appartenenti alla medesima famiglia o legate da un vincolo ad essa assimilabile, con conseguente protezione dell’integrità psicofisica, del patrimonio morale, della libertà e del decoro del soggetto passivo del reato.
Poiché la norma parla di maltrattamenti (al plurale), è necessario un ripetersi prolungato nel tempo di una pluralità di atti lesivi, che possono essere sia commissivi che omissivi, dell’integrità fisica, della libertà o del decoro della vittima e che possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, umiliazioni, privazioni e in generale atti di disprezzo e offesa alla dignità della persona.
Il concetto di “persona della famiglia” non riguarda soltanto i legami familiari fondati sul matrimonio, ma si estende a qualunque relazione che presenti caratteristiche e intensità tali da generare un rapporto stabile basato sull’affidamento e sulla solidarietà. In alcune sentenze si è anche rimarcato che non è necessario il requisito della convivenza o della coabitazione, in particolare con riferimento ai casi di separazione dei coniugi, poiché l’interruzione della convivenza non esclude la possibile prosecuzione o l’avvio di una condotta di maltrattamenti.
Secondo l’opinione dominante, il reato di maltrattamenti è un reato necessariamente abituale, costituito da una serie di condotte lesive dell’integrità fisica o psichica della vittima che, anche non costituenti reato singolarmente, acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo, poiché espressive di una sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa.
Dal punto di vista soggettivo, nell’agente deve esistere la consapevolezza e la volontà di infliggere una serie di sofferenze alla vittima del reato mediante una pluralità di episodi di aggressione alla sfera fisica o psichica di quest’ultima, tutti unificati da un nesso psicologico comune e senza che occorra programmazione fin dall’inizio delle singole condotte. In altre parole, il dolo è unitario e graduale, cioè non può essere scisso nella consapevolezza e volontà di porre in essere i singoli atti, ma deve caratterizzarne l’insieme, cioè deve essere l’elemento unificatore di tutte le singole condotte.
La pena prevista per la fattispecie base è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, oppure se il fatto è commesso con armi.
Inoltre, se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore che dovesse assistere ai maltrattamenti è considerato anch’egli persona offesa dal reato.
Il reato è procedibile d’ufficio.
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